Dalla Russia ai nostri luoghi, i politici che non vogliono andar via…
Caro direttore, è quasi sempre il tramonto che dà un senso e una coloritura alla lunga giornata di un uomo politico. Che la spiega, la illustra, qualche volta perfino riesce ad illuminarla. Altre volte invece un tramonto troppo lungo la conduce inesorabilmente verso la cupezza della notte. Infatti, è proprio il modo in cui si conclude un’esperienza pubblica, si esce di scena, si cede il passo alle figure e agli eventi che popoleranno il giorno dopo, è proprio quel modo per l’appunto che assolve e nobilita il potere. Si prenda il caso di Putin. La sua serata, dopo un giorno durato vent’anni e più di potere autocratico, ne svela il peggio. Il tratto dispotico, lo spirito predatorio, l’animo ferino. Ma anche qualcosa di più: e cioè l’incapacità di contemplare l’idea che la Russia, e il mondo, gli possano sopravvivere. Fa paura, tutto questo. Ma a sua volta svela la paura del dittatore. Che somiglia molto alla sua oscura consapevolezza che il tempo non milita più dalla sua parte.
Nella tragedia ucraina c’è anche questo. La sfida tra una novità che reclama di essere riconosciuta e un declino che pretende di sovvertire il suo stesso destino. Le democrazie sono tali perché in esse, di regola, il potere conosce stagioni brevi e destini che non durano mai più di tanto. Mentre le dittature inseguono il mito della longevità dei loro capi, salvo trovarsi poi a fare i conti con il declino, fisico e spirituale, dei condottieri di una volta. I quali, giunti per così dire alla fine di loro stessi, esibiscono solo la maschera grottesca di quello che furono non riuscendo mai a contemplare quello che sarà. Ne discende una lezione anche per noi. Ed è che la longevità non è quasi mai un merito, un segno di talento. Semmai proprio quel coriaceo istinto che induce a resistere più a lungo che si può, inchiavardati al potere o a quel che ne resta, è il segno di un limite -anche politico. E quasi di un appannamento delle ragioni della democrazia. Un parlamentare conservatore inglese degli anni sessanta, Enoch Powell, osservò una volta che tutte le carriere politiche, prima o poi, finiscono per così dire a coda di topo, lasciandosi dietro una scia di declino. Come se il destino di un leader fosse inesorabilmente quello della sua consumazione. O almeno dell’inevitabile delusione dei suoi seguaci. È un’osservazione meno banale di come appare. Soprattutto, fa tutt’uno con l’idea stessa di democrazia. Cioè di un potere fragile, transitorio, declinante per sua stessa natura. E semmai forte solo di questo.
Carriere sempiterne, dalle nostre parti, ne abbiamo viste. Ma i più acuti protagonisti di quelle stagioni che sembravano infinite intuivano che proprio la loro ostinazione a durare, a voler sopravvivere a ogni costo, era quasi il sigillo della loro imperfezione democratica e non già quello del loro talento. È la brevità del ciclo di un politico che ne suggella il valore. Cosa che Putin un giorno o l’altro imparerà a sue spese. E che noi, democratici di tutto il mondo, dovremmo sempre cercare di non dimenticare.
MARCO FOLLINI